Questione di stile (recensioni)

Ho riflettutto a lungo se addentrarmi o meno in queste recensioni che vi propongo. Per la prima volta, infatti, trattero’ non di film o di libri, ma di telefilm – o, come mi pare piu’ corretto chiamarle, miniserie.
Da quanto per fattori esterni alla mia volonta’ ho cominciato ad avere accesso a Neflix, il mio consumo (sic) di questo tipo di prodotto culturale (sic) e’ aumentato nettamente.
Forse lo stile-miniserie come stile del XXI secolo meriterebbe una riflessione, ma non la faro’ qui.
In ogni caso, non ero convinto di voler recensire questo tipo di produzione. Forse per snobismo, forse perche’ non saprei inquadrarla artisticamente (? culturalmente?, mediaticamente?). O forse senza vera ragione. Alla fine, come vedete, ho ceduto.
Ho ceduto perche’ la visione di alcune produzioni mi ha motivato a riflettere piu’ in profondita’ sulla loro qualita’ e meritevolezza, che sono in definitiva i tratti delle recensioni. Perche’ no?, dunque.

Recensione 59: “Giri/Haji” (“Dovere/Vergogna”)
Co-produzione anglo-giapponese per questo telefilm (pardon: miniserie) crime poliziesco ambientato fra Tokyo e Londra, fra yakuza e Scotland Yard.
Lo inserisco nella lista perche’ ho particolarmente apprezzato alcuni aspetti, oltre ad una buona trama con buoni intrecci e senza sentimentalismi: la recitazione (per quel che ne posso capire), la commistione di stili e di vedute fra oriente e occidente (bella l’idea di includere tratti a fumetti, quasi dei manga).
Storia di due fratelli divisi da incomprensioni (quanto gioca la cultura in questa serie – e quanto bene viene presentata) e dalle professioni (uno poliziotto, l’altro gangster) e ri-uniti da un piano criminale che si dipana fra le due metropoli. Spesso l’uno contro l’altro, tirati lontano da contrapposte lealta’ e doveri che collidono; altrettanto spesso avvicinati da tratti comuni. Un gioco di costante tensione fra opposti, un tira/molla che affascina e cattura.
Pure gli altri personaggi, le altre storie “collaterali” e intrecciate riescono a mantenere uno spessore e un interesse non da poco. Caratteri che evolvono, riflessioni sul rapporto fra crimine e polizia. Un po’ eccessivamente violento a tratti, ma forse questa scelta si giustifica se inserita nello stile manga. Nel complesso, un bel mix.
Menzione speciale, infine, per la scena del balletto. Spettacolare, magnificamente montata e dolcissima.
Consigliato, specie per provare un senso dell’incrocio trans-culturale, anche criminale. Meno entusiasta il Guardian.

Recensione 60: “Black Earth Rising
Avevo sentito grandi cose di questa miniserie e quando, bloccato qui in quarantena, ho finalmente deciso di affrontarla, ne avevo grandi aspettative. Purtroppo, largamente deluse.
Forse le mie aspettative erano troppo grandi, o forse erano semplicemente male orientate. Puo’ essere, ma non credo. Alla fine, ho trovato questa miniserie piuttosto banale, debole nel legare assieme alcuni protagonisti, ancor piu’ debole nell’approfondirne gli sviluppi.
Storia di enorme potenziale: Kate Ashby, una ragazza sopravvissuta al genocidio ruandese del 1994 e adottata da un’avvocata inglese e’ costretta a riaffrontare il proprio passato quando si ri-aprono dei casi giudiziari legati a quegli eventi. Il tutto mentre attorno a questi casi e su questi casi (dunque attorno a lei e su di lei) si svolgono trame politiche, e geopolitiche (il Grande Gioco).
Purtroppo, a mio giudizio, il grande limite di questa miniserie e’ quello di attenersi troppo agli eventi. Alla fine, “Black Earth Rising” non offre molto di piu’ che un compendio artistico del genocidio e di quel che ne e’ seguito (ad esempio, il Ruanda che sotto Kagame e RPF passa dalla sfera francese a quella inglese). Va appena oltre solo alla fine, quando inserisce la dimensione economica (lo sfruttamento delle risorse minerarie del Congo), ma anche qui da’ veramente poco a chi conosca gia’ almeno un po’ la regione.
Notevole il coup de theatre finale che coinvolge la protagonista (e che fa da fil rouge sottostante a gran parte della trama), ma resta un punto piuttosto isolato e che, date le premesse (il trauma della protagonista Kate Ashby) avrebbe meritato uno sviluppo ulteriore. Qualche tocco di white guilt da parte degli occidentali che “non capiscono” l’Africa (ma quasi nessuna riflessione sul quale parte giochino gli africani trapiantati altrove in questo). Brava Michaela Coel nel ruolo principale.
Deludente, invece (almeno a gusto mio) l’intreccio dei personaggi, persino eccessivo a volte nei continui ritorni e legami fra tutti i protagonisti che danno quasi l’impressione di una “storia privata” del gruppo, piuttosto che collettiva: scelta giustificata, a sottolineare la duplicita’ di carattere e i sotterfugi, i legami sotterranei che unisco; ma mi e’ parsa abusata. Decisamente sprecata la scena e la suggestione dell’incontro fra Kate e il genocidiario Ganimana (il potenziale qui era enorme, ma non si e’ visto traccia di nessuno degli spunti narrativi che potevano emergere).
Valutazione opposta ed entusiastica del Guardian – forse la mia storia personale influenza troppo la mia percezione.
Giudizio personale: guardatelo se non conoscete la storia del Ruanda post-1994 e i suoi molteplici sviluppi o se sentite il bisogno di rinfrescarne la conoscenza. Altrimenti e’ evitabile, purtroppo.

Recensione 61: “Collateral
A meta’ strada fra le due miniserie di cui sopra, posizionerei “Collateral“. Con la precisazione che il mio giudizio, giunti a questo punto, soffre probabilmente un bias in favore delle produzioni britanniche. E, in questo caso, anche di weak spot verso Carey Mulligan.
Altra serie crime, questa volta incentrata sulla migrazione nel Regno Unito e sui traffici che la sostengono. La trama e’ forse la piu’ debole fra quelle delle tre serie qui recensite, arricchita da alcuni caratteri secondari che non aggiungono molto, ma offrono alla storia nel complesso un discreto spessore (politica, militari, chiesa… mancano, mi pare, i media).
Come per “Black Earth Rising“, anche in questo caso il tocco migliore nella storia arriva alla fine, con una proposizione che dovrebbe farci aprire gli occhi e riflettere molto piu’ di quanto in realta’ non riuscira’ a fare (o di quanto non siamo disposti). A dispetto di quella serie, tuttavia, direi che “Collateral” offre (nella sua semplicita’) uno svolgimento piu’ lineare, ma al contempo piu’ accattivante, navigandoci attraverso il sistema e le sue diramazioni piu’ perverse, pur mantenendo un tono persino delicato nel modo in cui la detective Kip Glaspie (Mulligan, appunto) ne solleva il lerciume.
Qui il Guardian e il sottoscritto arrivano ad un giudizio condiviso: godibile, intelligente. Merita.

Questa voce è stata pubblicata da redpoz.

1 thoughts on “Questione di stile (recensioni)

  1. Pingback: The big C (1) | redpoz

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.