Recensioni accumulate a natale

Recensione 54: “L’assedito di Jadotville
Film storico su uno dei (tanti) scontri durante la Crisi del Congo nel 1961. In particolare, un distaccamento di soldati irlandesi (“virgin army” che non ha mai partecipato ad una guerra) viene inviato nella citta’ di Likasi (allora Jadotville) nel Katanga per “proteggere la citta’”. Il virgolettato e’ d’obbligo, in quanto i ribelli katanghesi godevano in larga parte del supporto della popolazione locale (specie bianca) e compagnie minerarie.
In rappresaglia al massacro di alcuni operatori radio da parte dei peacekeepers indiani, mercenari (perlopiu’ francesi) assoldati dalle compagnie minerarie attaccano il compound dei soldati irlandesi, i quali eroicamente e in larga misura grazie alle doti del comandante Pat Quinlan si difendono per cinque giorni senza subire alcuna perdita contro un nemico venti volte superiore.

Come film di guerra, “L’assedito di Jadotville” risulta nel complesso gradevole, affascinante (certo, del fascino perverso che puo’ avere la rappresentazione dell’atto di uccidere – vedasi The act of killing“) e persino a tratti interessante. Soprattutto, riesce ad evitare l’epica dei film di guerra di epoche precedenti, o perlomeno a mascherarla in un prodotto meno enfatico.
Positiva, molto positiva, la scelta figurativa che evita con gusto il gore dello slaughtering, gli schizzi di sangue a’ la Tarantino e rappresentazioni grafiche e brutali delle uccisioni (forse solo il tiro del cecchino va con forza in questo senso). Certo: nel film si uccide e non lo si nasconde, ma la sua rappresentazione non scade nello splatter.

Forse il limite maggiore, o almeno il limite che ho percepito maggiormente, e’ proprio il fatto di rimanere un film di guerra: killing, killing and more killing. Sebbene a momenti appaiano spunti di riflessione che avrebbero meritato almeno un accenno di approfondimento (“At beginning I was afraid… then I started enjoying it [killing]” dice un soldato dopo il primo attacco). I soldati irlandesi si difendono per cinque giorni, alla fine praticamente disarmati (fanno esplodere i bossoli dei proiettili sparati, usandoli come schegge contro i nemici) – ma questo aveva senso? Quale senso aveva uccidere ancora a quel punto, in una battaglia persa nella quale non riceveranno alcun aiuto? Perche’ non provare ad includere una battuta in piu’, a riprendere il tema? Un peccato.

Il film cerca di esplorare almeno in parte il legame fra militare (tattica) e politico (strategia), in particolare nel ruolo del delegato ONU Conor Cruise O’Brien e il suo rifiuto di inviare supporto ai soldati irlandesi. Ma la cosa, a mia impressione, resta piuttosto superficiale.

Conclusione? Netflix continua a produrre prodotti di qualita’, apprezzabili dal grande pubblico senza particolare sforzo (pur essendo un film di guerra, resta -credo- godibile da tanti), tuttavia il film avrebbe beneficiato nello sfruttare le occasioni di approfondimento che la storia (o la narrazione proposta) offriva.

Recensione 55: “The Childhood of a leader
Vaga trasposizione della storia di Jean-Paul Sartre dallo stesso titolo (vaga perche’ con influenze da altri testi). Nel complesso, direi il film che mi e’ meno piaciuto fra gli ultimi che ho guardato.

La traposizione di Corbet, credo per quel che ne posso capire, e’ in se’ tecnicamente ben fatta. La storia decisamente interessante, ma –mea culpa– sono riuscito a coglierne le raffinate sfumature solo dopo aver letto commenti e recensioni.
Se il film doveva illustrare (rispondere alla domanda) come si sviluppa un leader fascista, quali momenti della sua infanzia determinano questo processo, direi che fallisce nell’intento. Purtroppo, non avendola letta, non posso giudicare se la narrazione sartriana sia piu’ efficace. Mi ha decisamente aiutato il commento di Bradshaw sul Guardian: Prescott learns that the brutal imposition of power is the response to unhappiness (sebbene abbia qualche perplessita’ sul ruolo della madre).
Altro problema: la conclusione. Certo, le scene finali danno un’idea (un’impressione?) del destino del protagonista da adulto, ma la cosa resta veramente troppo impercettibile. Il futuro leader [fascista – anche l’iconografia non e’ cosi’ chiara, anzi] appare per pochi istanti, senza prendere alcuna decisione, e -specialmente- senza dare alcuna indicazione di tendenze violente, dittatoriali, discriminatorie e in definitiva fasciste. Questo e’ un tratto non secondario nel testo originario, nel quale il protagonista di Sartre guida degli squadristi nel picchiare un ebreo.

In definitiva, le sfumature psicologiche della storia restano troppo sottili o troppo leggermente accennate per essere apprezzate.

Lo consiglerei? Solo con un’adeguata preparazione (leggere la storia di Sartre?). Forse uno dei pochi film che guadagna dal leggere precedentemente le recensioni.

Recensione 56: “Jojo Rabbit
Il primo impatto con questo film e’ stato veramente strano: da tutti i commenti che avevo letto in precedenza, avevo tratto l’impressione che il film fosse ambientato da qualche parte (Canada?) ai giorni d’oggi. Dalle prime scene, invece, ho scoperto che l’intera storia di un ragazzino di dieci anni il cui migliore amico immaginario e’ Hitler e’ ambientata proprio nella Germania negli ultimi mesi di guerra.
Questo cambio di scenario ha cambiato completamente il (supposto) sviluppo della trama.

Forse non si puo’ chiedere molto ad un film ambientato nella Germania nazista, o forse Taika Waititi avrebbe dovuto fare decisamente meglio proprio in considerazione del tema dell’ambientazione, ma contrariamente a molte recensioni piuttosto negative (di nuovo Bradshaw 1/5; contra: Kermode), ho trovato il film complessivamente gradevole. Scarlett Johansson brava nel ruolo (la scena del padre un piccolo capolavoro che credo meriterebbe molto piu’ riconoscimento).

La storia, l’evoluzione della storia, ruota attorno il cambiamento del protagonista -da un piccolo fanatico nazista plasmato nel culto dell’odio verso gli ebrei, la cui fine viene ben illustrata dai tanti ragazzini cui nelle scene finali viene data una granata e l’invito “vai ad abbracciare il primo soldato americano che incontri“- tramite il suo contatto quotidiano con una ragazza ebrea che la madre ha nascosto in casa. Il conflitto con l’immaginario Hitler (lo stesso Waititi un “quirky, goofy, zany Adolf, like a drag queen but in men’s clothes“: una pantomima che offende al punto giusto il superuomo) su questa relazione e’ forse troppo semplice, ma rende in modo piuttosto simpatico l’idea.
Proprio le scene del conflitto finale, la rappresentazione dell’ultima desperata difea tedesca contro le truppe russo/alleate sono forse il momento piu’ toccante del film – un’immagine molto diretta, e realistica, della follia in cui il nazismo ha condotto la Germania.
Bella, a mio parere, anche l’evoluzione del captano Klenzendorf (bravo, almeno a tratti, anche Rockwell nel ruolo), sebbene un po’ stereotipata.
Manca, purtroppo, un vero momento attorno al lutto per la morte della madre (cosi’ come per gli altri impiccati… immagini persino sprecate nel loro fallimento di esplorare il male).

Film leggero (troppo?), piuttosto gradevole ma affatto profondo.

Questa voce è stata pubblicata da redpoz.

6 thoughts on “Recensioni accumulate a natale

  1. Bella la riflessione sulla violenza dei film di guerra: io credo che, più che la violenza di per se, il problema stia nell’estetica della violenza, nel mostrare la violenza come qualcosa di in certo modo piacevole. Visto che lo hai citato: la violenza di Tarantino, personalmente, l’ho sempre trovata talmente esagerata da non poter essere presa sul serio; quella di Spielberg, viceversa, è sempre qualcosa di negativo e censurabile, anche quando a praticarla sono i “buoni”. Per citare il grande Kurt Vonnegut, il problema secondo me è che, troppo spesso, nei film di guerra il protagonista è John Wayne, o Frank Sinatra.

    • L’etica e l’estetica del personaggio John Wayne (o Clint Eastwood) meriterebbero uno studio – che poi ci sara’ gia’.
      Non concordo su Tarantino, per quanto la teoria sia affascinante. Forse e’ troppo raffinato per me, ma secondo me ha proprio un gusto sadico (la cosa e’ troppo ripetitiva per essere solo un “espediente” artistico: ritorna in ogni film, in ogni salsa!).

      Ma, per tornare al tema della violenza in se’, la domanda allora dovrebbe essere: dove si traccia la linea fra piacevole e non? Francamente lo trovo assai difficile (per molti, azzardo, la violenza di Tarantino e’ piacevolissima).
      Proprio per questo il film su Jadotville e’ stata un’occasione persa, perche’ la rappresentazione della violenza mi e’ parsa molto sfumata (magari sbaglio, eh), e offriva spazi per altro.

      • Clint Eastwood però è già un personaggio più complesso. Il suo precipitare nella violenza, al termine de “Gli intoccabili”, per esempio, viene vissuto come un fallimento. E “Gran Torino”, ad esempio, gioca proprio con quell’immaginario.

        Per me la violenza di Tarantino non è piacevole, ad esempio; ma non è neppure spiacevole.

        • Non conosco “Gli intoccabili”, sicuro sia di Eastwood?
          In ogni caso, la traiettoria artistica di Wayne va legata a quella politica-diplomatica degli USA nello stesso periodo. Forse (dico forse) vent’anni dopo anche Wayne avrebbe fatto film diversi

          • Scusa: intendevo “Gli spietati”.
            Secondo me avrebbe fatto gli stessi film, che non avrebbero avuto lo stesso successo.

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